martedì 23 giugno 2015

Jô’ tànato tis ducissa Lucrezia


Accadde oggi: il 24 giugno 1519 Lucrezia Borgia moriva a soli 39 anni in seguito a un parto difficile, due giorni dopo aver dettato quest’ultima, commovente lettera per il papa Leone X:
“Sanctissimo Padre […] havendo io per una difficile gravideza patito gran male più di duo mesi, come a Dio piacque a XIIIJ del presente in aurora hebbi una figliola; e speravo, essendo scaricata del parto, ch’el mal mio ancho si dovesse alleviare; ma è successo il contrario, in modo che mi è forza concedere alla natura; e tanto di dono m’ha fatto il Clementissimo nostro Creatore, che io cognosco il fine de la mia vita e sento che fra poche hore ne sarò fuori, havendo però prima ricevuti tutti li Sancti Sacramenti de la Chiesia. Et in questo punto come cristiana benché peccatrice mi sono racordata de supplicar’ a vostra Beatitudine per sua benignità si degni dare del Thesoro spirituale qualche suffragio con la sua Sancta benedictione all’anima mia: e così devotamente la prego; et in sua Sancta gratia raccomando il Signor Consorte et figlioli mei tutti servitorj di predicta vostra Beatitudine.
In Ferrara adì XXIJ de Zugno 1519 a hore XIIIJ.
De vostra Beatitudine
Humil serva
Lucretia da Este”.
Sa’ sìmmeri, stes ikositèssares tu mina tu teru, sto’ chrono chije pentakošce ce dekannea, e Lucrezia Borgia pethìniske xe triantannea chronò, dopu enan ghènniman dìskulo. Dius emeres proi, iche kàmonta na gràpsune jà cini utto òrrion gramma jô’ papa pù toa, o Leone X:
“Ajo’ Ciùri […] evò ìmone èdimi, c’èsira ambrò ma malus ponu ros stes dekatèssare tunù mina; toa, sto xemerosi tis emera, jènnisa mia’ kiatereḍḍa. Ce pìstone ti icha na stathò kajo’ pù proi; ma ta pràmata pìrtane sto chiru, tosso’ ti arte torò ti jà mena ‘en ei tipo tikami pleo. Ce o Teò môkame ti’ chari na noìso ti mu mènune alie ore na żiso, proppi nâgguo pù utto’ kosmo. Jà tuo xemoloò tes amartìes dikè’-mu ce jurèo ‘ss esena, Ajo’ Ciùri, na mu vloìsi ti’ psichìn-mu; se prakalò m’oli’ ti’ kardìa na kratesi panta sti’ chari’-su ton àndran-mu ce ta pedìa-mu, pu se dulèune.
Attin Ferrara, stes dekatèssares ore, stes ikosidìus emeres tu teru.
Na se dulepso panta
Lucrezia attos Este”.


(‘O gramma vrìskete ston “Archivio di Stato di Modena”.)

domenica 31 maggio 2015

Dall'Islanda al Salento si ha notizia della scaltrezza di un pirata vichingo

“Adingo Principe Normanno dopo aver lungamente stretta di assedio, e battuta senza profitto la Città di Luni in Toscana fe’ cessare le batterie, e rallentare gli attacchi, indi cessare ogni ostilità, facendo correr voce d’essere infermo, indi di esser moribondo, e finalmente di esser morto.
“Sparsa la nuova della sua morte si portò a lunigiani il testamento, nel quale disponeva di esser portato con pompa funebre in quella Cattedrale, alla quale donava il suo cadavere, e col cadavere una ricchissima eredità. Si fidarono i Cittadini, gli attacchi, e le ostilità da qualche tempo cessate guadagnarono fede all’inganno. In mezzo a mille fiaccole con numeroso accompagnamento, ed offiziali, fù portato Adingo nella città, ma mentre i Cittadini con sicurezza, e con pace miravano la pompa del funerale superbo, il finto morto aprì da se stesso la cassa, nella quale non era chiuso, ma solamente nascosto e balzando dalla sua bara, si vidde tosto armato in mezzo di mille spade guerriere, quegli, che prima consideravano morto in mezzo a mille facelle lugubri. Occupò tosto la porta, e con poco contrasto ne fù Padrone.
“Entrò per essa il suo esercito, ed il creduto funerale di un finto morto divenne funerale alla lor libertà, non più viva.
“Così Adingo col cessar di combattere ebbe vittoria, coll’esser creduto morto si fe’ veder trionfante”.
Fin qui la nota scritta sul recto e sul verso di uno dei fogli non numerati (sarebbe la c. 126) presente tra le due parti (con numerazione distinta) che formano il Liber Quartus Mortuorum della parrocchia di s. Brizio in Calimera, utilizzato tra gli anni 1741 e 1784. Il periodo, la grafia (per migliorare la leggibilità sono state rese con ‘v’ le ‘u’ con tale significato) e il gusto di divulgare fatti insoliti rimandano a don Marino Licci (arciprete dal 1741 al 1778) quale probabile estensore della nota.
Stimolato da mio figlio Giuseppe che, avendo letto la mia trascrizione, era particolarmente affascinato e incuriosito dall’episodio narratovi – storico o leggendario che fosse – mi sono messo alla ricerca di questo Adingo. La località indicata (che dà il nome alla Lunigiana, subregione tra la Liguria e la Toscana) – ricadente molto al di fuori dell’ambito geografico del regno normanno che, dalla metà dell’XI alla fine del XII secolo, unificò politicamente l’Italia meridionale e la Sicilia – mi lasciava un po’ scettico. Tendevo, del resto, a collocare l’episodio in quel medesimo periodo di tempo, e questa supposizione mi mandava fuori strada. Pensai, pertanto, di chiedere lumi al comune di Ortonovo nei cui confini amministrativi ricade quel che resta dell’antica Luni. Dalla dr.ssa Durante (della Soprintendenza archeologica della Liguria), che ringrazio, venni a sapere che ‘Adingo’ doveva essere una corruzione di ‘Hasting’1, un pirata danese che, intorno all’anno 860, avrebbe assaltato e distrutto la città di Luni – secondo quanto riferito dal canonico Dudon circa un secolo e mezzo più tardi, quindi poco dopo l’anno Mille. In attesa di un auspicato scambio di informazioni su Adingo-Hasting – che finora non c’è stato – con questi elementi a disposizione ho trovato sulla Treccani, alla voce Dudon, quanto segue: “Cronista normanno, nato verso il 960-965 a Saint-Quentin nel Vernandois, morto ivi prima del 1043. […] Dudon compose il De moribus et actis primorum Normandiae ducum, diviso in quattro parti (Hastingus, Rollo, Willelmus, Richardus), opera di grande importanza, perché ad essa attinsero, si può dire, tutti i cronisti di Normandia dei secoli XI e XII, ma in cui non riesce facile distinguere la leggenda dalla storia anche a causa dello stile di Dudon, molto affettato e magniloquente”. Quindi l’anonimo autore della voce segnala che: “La Iª ed., dovuta ad A. Duchesne, apparve negli Historiae Normannorum scriptores antiqui (Parigi 1619), e fu riprodotta dal Migne, Patrologia Latina, CXLI, coll. 609-758; l’ultima e migliore è quella di J. Lair, in Memoires de la Société des antiquaires de Normandie, XXIII (1865)”2.
È così cominciata la caccia alle remote (nel tempo e nello spazio) pubblicazioni indicate nella bibliografia alla voce “Dudon”. Avvalendomi anche della preziosa collaborazione di mia cognata suor Gabriella Greco – che vive ed opera in località più vicine alla città in cui si sono svolti i fatti narrati – ho potuto visionare un testo che riporta, dall’edizione più recente, il passo che mi interessava3; successivamente sono riuscito a rintracciare anche la più antica: anche se non è considerata la migliore, siccome nel passo in questione – a parte la punteggiatura e qualche simbolo grafico in uso all’epoca – l’ho trovata più accurata dell’altra, la propongo così com’è, cioè sufficientemente intelligibile.
«… Romam dominam Gentium volentes clam adipisci, Lunxe4 vrbem, quæ Luna dicitur, nauigio sunt congressi (Hasting e i suoi uomini). Principes igitur ciuitatis formidoloso tantorum impetu exterriti, munierunt vrbem quam pluribus armigeris. Decernens Adstignus5 blasphemus, ab omnibus non posse ciuitatem capi armis, dolosum reperit consilium nefandissimæ fraudis. Misit itaque nuntium ad Comitem ciuitatis, & ad Episcopum, subsequentia verba illis dicturum. Qui conspectui illorum adsistens, talia coram profudit dicens: “Anstingus Dux Dacorum6 vobis fidele seruitium, & omnes pariter sui, forte Dacia cum ipso eiecti. […] Vestram vrbem nec ferro depopulari, nec prædas venimus pagi vestri ad naues deducere. […] Noster Senior infirmatus , multísque doloribus plenus, vult à vobis fonte salutifero redimi, Christianúmque sese fieri : & si morte hac in infirmitate præoccupatus fuerit, vestra misericordia vestráque pietate hac ciuitate sepeliri”. Hoc audientes Presul & Comes respôderût internuntio dicentes: “Perpetui fœderis pactum vobiscum agimus, vestrumq; Seniorem Christianum facimus”. […] Interim præparatur ab7 Episcopo balneum, perfido non profuturum. Santificantur aquæ putei gurgite exhaustæ. Illuminantur cerei ad sacrum mysterium lauacri. Aduehitur præstigiator Anstignus, dolosi consilij repertor maliuolus. Intrat perfidus fontes, corpus tantum deluentes. Suscepit nefarius baptismum, ad animæ suæ interitum. Suscipitur de sacrosancto baptismate ab Episcopo & Comite. Deducitur quasi infirmus, sacro charismate oleóque delibutus. Non ægrotus, sed æger, negotio perfidiæ miser. Deportatus quasi infirmus ad nauis contubernium, corpore dealbatus totum. Conuocat igitur ilicò omnium nequissimos, super sua fraudulenta dolositate consulturos. Pandit illis secretum exsecrabile, quod conceperat furioso corde: “Imminenti nocte me mortuum nuntiate Præsuli & Comiti, & deposcite nimium flentes, vt faciant me neophytum sua vrbe sepeliri. Enses, & armillas, & quidquid est mei iuris, dicite vos daturos illis”. Illi autem, vt iussum fuerat, ante dominos ciuitatis venientes, dixerunt eiulantes: “Noster Senior, vestérque filiolus pro dolor! est defunctus. Precamur miseri, vt in vestro Monasterio sepeliri eum faciatis; & munera quæ vobis moriens iussit permaxima dari, recipiatis”. Illi namque tali sophismate decepti, dandísque & accipiendis muneribus quasi excæcati spoponderunt corpus recipi, & Monasterio decenter humari. Internuntij autem regressi, renuntiauerunt quæ fraudolenter impetrauerant funesti. Tunc contumax pestifer gaudens super responsis corum, vniuscuiusque tribus mandat accersiri præcipuum. Congregatis autem omnibus, nequissimorum nequior dixit Anstingus : “Mihi modo facite feretrum, & super ponite me quasi mortuum, arma mecum in ipso collocate, & vos in gyrum circa ipsa flebiter flate; vos per plateas ululate, vestrosque me cogite plangere. Tumultuet vox vestra per cuncta nostra tentoria. Concrepet vox qui præsunt nauibus, cum cæteris cohortibus. Armillas & baltheos ferri ante feretrum facite. Gemmis auróque politos secures ensésque exponite”. Fit dicto citiùs quod mandarat funestus. Auditur clamor vlulatuum; tumultúsque lugentium. Resonant montes pro vocibus dolosè mœrentium tinnientes. Conuocat Præsul campanis gentem diffusam per totam ciuitatem. Venit Clerus monasticis vestimentis indutus. Similiter Principes illius vrbis martyrio coronandi. Affuit femineus sexus in exilium deducendus. Pergunt vnanimes contra monstrum feretro impositum. Baiulant Scolastici candelabra & cruces, maioribus præcedentes. Aduehitur à paganis Anstignus, viuus super feretrum positus. Atque in exitu ciuitatis obuiant Christiani paganis. Ab vtróque populo comportatur ad Monasterium, quo sepulchrum eius erat paratum. Præparat se Episcopus ; Missam pro suo filiolo celebraturus. Choro stat & Clerus, officiosissimè cantare suetus. Ignorant trucidandi Christiani dolum mortiferæ fraudis. Decantatur Missa sollemniter celebrata. Participant omnes Christiani mystico sacrificio Iesu Christi. His Missarum sollemniis decenter expletis, paulatímque paganis congregatis, iussit Præsul corpus ad sepulturam deferri. Pagani cum magno clamore petebant feretrum, & dicebant alternatim non eum sepeliendum. Stabant igitur Christiani super responsis eorum stupefacti. Tunc Anstignus feretro desiluit, ensémque fulgentem vagina deripuit. Inuasit funestus Præsulem librum manu tenentem. Iugulat Præsulem, prostrato & Comite, stantémque Clerum in Ecclesia inermem. Obstruxerunt pagani ostia templi, ne posset vllus elabi. Tunc paganorum rabies trucidat Christianos inermes. Traduntur omnes neci, quos furor reperit hostis. Sæuiunt infra delubri septa, vt lupi infra ouium caulas. Corde premunt gemitum mulieres, lacrymásque effundunt inanes. Iuuenes cum virginibus loris concatenantur simul. Vltima vitae dies accidit omnibus, breuéque & inrecuperabile vitae tempus. Prosternunt per mœnia vrbis præliantes, quoscumque reperiunt robustiores. Atteruntur ciues, sæuiente Marte dolentes. Gens quæ præerat nauibus adest, portis vi patentibus. Stat mucrone co-rusco acies ferri, strictim parata neci. Iungunt se præliantibus, hinc inde certantes altrinsecus. Crudeliter perimunt omnes, quos reperiunt armis obstantes. Tandem finitur duellum, heheu! perempto cœtu Christianorum. Cetera namque manus flebilis dicitur nauibus. Conquiescit furentis Anstigni rabies, prostratos propter vrbis Principes. Gloriabatur Anstignus cum suis ratus cepisse Romam caput mundi. Gratatur tenere se Monarchiam totius imperij, per vrbem quam putabat Romam8, quæ est gentium dominatrix. Hanc non esse Romam postquam didicit, commotus ira sic inquit: “Prædamini omnem Prouinciam, & incendite vrbem istam. Captiuos & spolia conducite ad naues quamplurima. Sentiant coloni istius terræ, nos in finibus illorum versasse”. Quod mandat teter, gaudet parare minister. Omnis Prouincia inuaditur, hostéque nequissimo superatur. Strages quamplurima efficitur, captiui ad naues ducuntur. Gladio & incendio deuastant omnia, quæ fuerant illis in præsentia. Onerant naues, his expletis, captiuis & spoliis. Iam vertunt proras ad Francigenæ gentis regnum ducendas. Permeant mare Me-diterraneum, reuertentes ad Franciæ regnum9».

È difficile non condividere il giudizio espresso dal curatore della voce Dudon sullo stile del medesimo, anche se, personalmente, penso che si tratti di un modo scrivere adeguato alla drammaticità della materia. Per quanto riguarda, invece, il difficile vaglio della storicità di questo particolare episodio, può essere utile sentire il parere di G. Sforza che ha affrontato il problema nella citata opera monografica: “Il primo a raccontare la conquista di Luni fatta da Hasting, come s’è visto, fu il decano Dudone; e per quanto scrivesse un secolo e mezzo dopo, c’è in gran parte da aggiustargli fede. Vivendo alla corte de’ Duchi di Normandia, era l’eco d’una tradizione normanna, talmente diffusa e con radici così salde e tenaci da correre sulle bocche tutte de’ diversi popoli della Scandinavia. Lo provano le Saga dell’Islanda e della Norvegia”10.
Nella ricerca dello Sforza – tra le tante versioni dell’episodio – ho rinvenuto quella che potrebbe essere stata la fonte della nota presente nell’archivio parrocchiale di Calimera: «Inter alios vero qui classis praefecti post Roricum regem navigabant, Haddingus quidam, regio sanguine, sed feroci animo vir, natus ad arma, fortem exercitum dux fortis in Galliam exponebat, praedabundus incedens quocunque se verteret. Ecclesiarum incendia, matronarum stupra, puellarum raptus, virorum neces sine numero peregit. Displicuit illi praeda, quam non sanguis commendabat. Longum fuerit recensere, quae monasteria subversa, quot trucidati monachi, quot virgines Christo sacrae conculcatae. Captivi pertrahuntur in naves, stipatur praeda navis capacissima, ex una raptim provincia in aliam deportantur: fugiunt castra quocunque applicant. Saevissima hominum crudelitatis tantum iniecit terroris regnicolis, ut diu nemo inveniretur qui exercitum opponeret grassabundus. Iam plenus erat Haddingus spoliis, quae con-traxit ex Galliis. Maiora interim animo concepit. Italiam enim incustoditam vel audierat, vel praesumebat; in qua contribules sui Longobardi, et ante eos Gothi, gens vicina, diu dominabantur. Dignam esse provinciam ratus, in qua subigenda omnis labor exantlaretur: immortale sibi nomen futurum, si ipsam Romam mundi caput caperet, unde totum nomen vindicarent, qui in Francia et Germania Romani imperatores dicerentur. Igitur constructa classe petebat Italiam, sive magno illo circuitu omnem Hispaniam circumvectus, per mediterraneum mare a columnis Herculis ingressus, Tyrrenum intraverit: sive terrestri itinere per Gallias in Rhodanum provectus, inde inventis undecumque navibus (rem enim in incerto reliquit antiquitas) Italiam contigerit. Lunam civitatem primam habere coepit in conspectu: florebat autem ea tempestate in Ligurum provincia ad mare. Eamque arbitratus Romam (quod non mediocris inter urbes Italiae tum Luna esset) magnitudine nominis stupefactus, dolo magis quam vi agendum arbitratus est.
«Annus erat a Christi exortu temporali post octingesimum (!) quinquagesimus septimus, quum (ut ait Sigilbertus) Normanni inter Hispaniam et Aphricam navigantes, ingrediuntur Rhodanum, depopulatisque civitatibus ac monasteriis, in insulam quae Camaria dicitur, pervenerunt. Hanc ego interpretor esse navigationem quam describimus. Absolvit enim hic testis quod supra in quaestione reliquimus, eos in Italiam transeuntes, inter Hispaniam et Aphricam (hoc este per Mediterraneum) navigasse. Quamvis et hoc non incongrue possit accipi, Normannos per Galliam, pedestri itinere moventes, in Rhodano reperisse naves, quibus conscensis, ex hoc fluvio Ligusticum mare petentes, Lunam civitatem Italiae primam habuerint in cospectu. Igitur quum Romam se videre putaret Haddingus, delegit viros linguae gnaros, quos in urbem ad loci praesides misit oratores. Illi viam emensi, ad episcopum loci comitemque provinciae perveniunt, mandataque esponentes (!), pacem praefantur, ac amicis salutem. Venimus, inquiunt, Dania forte pulsi, quod terra moltitudinem (!) hominum non caperet. Maria multa transeuntes, Franciam primam ingredimur pacifici, indeque eiecti armis erravimus. Tempestatibus acti, incognita nobis regionem vestram appulimus: nihil a vobis nisi hospitalem terram deposcimus. Sunt nobis aera non paucas comeatibus comparandis: a mari terris expositos, paulum respirare fas sit. Senior noster, quem principis loco colimus, iam aetate fessus, ac viribus defectus, maris taedio fractus, sacris initiari, sacrum baptismatis fontem deposci: qua de re in Francia manens intellexit, de mundo iam transiturus. Si quid in hac terra pium est, miserescite. Plura dicturis, pontifex interloquitur. Non est nostra, inquit, religionis quenquam (!) pietatis lavacro prohibere, aut diu precantem suspendere : invitamus dissimulantes, suademus reluctantibus. Si ea res cordi vobis est, principem vestrum producite: tellus hospitalis sit vobis. Commercia rerum omnium pacificis non negamus. Praeproperum sermonem elicuit et gentis formidata saevitia et pietatis officium, quod proeferebant implorantes. Facile enim fuit precantibus permittere quod vi poterant extorquere repulsi.
«Igitur magno apparato lavacrum in ecclesia praeparatur circumstant primarii urbis viri et foeminae. Spectaculum gerebatur cernere virum barbarae nationis principem ad sacra Christi properantem. Ubi cuncta ex sententia constiterat prodibat auro fultus et ostro princeps Haddingus, baculo innixus, vix debilem (ut simulabat) gressum trhaens (!). Magnus ordo praeibat iuvenum honesta facie ac veste, maior vallabat circulus propinquorum militum et praefectorum. Ventum est ad baptisterii locum. Ibi solenni (!) ritus sacri initiatus, lavacrum corpore, non corde persensit; quippe dolum versabat in animo. Iam speculatus urbem, pacificus (uti venerat) redibat in naves, inter manus deportatus famulorum. Proxima luce fama egreditur morte functum principem, simulatur luctus in toto exercitu gravis. Rumor diffunditur per urbem, bene cum illo actum, quum lotus sacro baptismatis fonte, purus evolaverit ad aethera. Procedunt pullati ex primoribus, locum poscunt sepolturae insigni parte templi. Non mediocria fecisse legata narratur ecclesiis, arma et cornupedem cum auro plurimo et gemmis. Non difficulter impetrant. Paruntur in urbe regio more funeralia: tota ad exequias concurrit turba civitatis. Feretro armatus imponitur: omnis exercitus in armis principem suum ad tumulum consequitur. Pietatis sunt visa obsequia: et ne civitas terreatur, illum se ritum in gente sua principis tumulandi mentiuntur. Nemo dolum suspicatur in luctu: ea facies erat omnium, ut nihil minus quam insidias cogitare viderentur. Procedit funus: omnis in officio pietatis civitas fuit, moestus in armis sequitur exercitus. Pontifex sacris indutus, divinum peragere parabat officium: ad exequiarum cultum omnes respexere. Feretrum deponitur auro fulgens, operimentum detrahitur. Armatus exurgit Haddingus, dat signum militibus. Primus ipse gladio ferit astantes. Ibi luctus simulatus ab exercitu, in verum urbis luctum convertitur11: sternuntur passim sacra cum profanis. Antistes loci corruit, viri, foeminae, senes, pueri, clerus, laici sine discrimine proteruntur: rapiuntur vasa sacra, vestes preciosae et quicquid usquam vel in templis vel aedibus precio erat, abducitur: captivi in naves puellae matronae cum praeda deferuntur: exusta civitas et in perniciem data, luebat poenam facilis credulitatis. Haddingus praeda onustus regreditur in Fran-ciam. Romam diu sibi visus est protrivisse, donec errore cognito demitteret animos. Itaque in Franciam rediens, inito cum rege Francorum pacto (Carolus calvo hic erat) Carnotum cum vicinis agris accepit habitandum, ut in reliquum regi militaret, christianis sacris initiatus. Bior autem, quem hactenus puerum regem circumduxit, cum praeda in patriam reversurus adibat. Sed magna suorum parte amissa naufragio, eiectus concessit in Frisiam, ibique decessit. Haddingus autem permissis locis habitans, ibi pacatus perduravit usque in tempora Rollonis. Qui post veniens, omnem Neustriam de suo ac suorum nomine Normanniam appellavit»12.
Come si vede, nell’opera del Krantz si parla di un “princeps Haddingus”; per questa ragione è plausibile pensare che sia stata questa la fonte della nota sintetica che comincia con “Adingo Principe Normanno”. Ma qual era il vero nome del principe o duca nonché pirata? Incredibile dictu, ma sembra che si avvicini molto alla forma indicata dal parroco di Calimera. Vediamone il motivo: “Allo Steenstrup fa maraviglia che Saxo grammatico, «père de l’historiographie danoise», il quale terminò la sua Historia Danica ne’ primi anni del secolo XIII, ignori l’impresa di Hasting contro Luni. [...] «Il est très-naturel de supposer que Saxo, ou la tradition populaire avant lui, a confondu Luna avec Lundonia, en danois Lunaborg et Lundunaborg. [...] enfin Hasting n’est qu’ une forme non scandinave du nom Hadding»”13. E questo, francamente, non ce lo aspettavamo, visto che è conosciuta solo la prima forma, quella non scandinava.

La fama dell’episodio, di per sé eclatante, fece naturalmente il giro di tutti i domini normanni del tempo, ma non, probabilmente, di quelli acquisiti successivamente; tanto è vero che l’espediente fu riproposto con successo per circa quattro secoli: “Lo strattagemma del fingersi morto adoperato da Hasting per impadronirsi di Luni, che Dudone, decano di San Quintino, fu il primo a descrivere, venne messo in pratica nel medioevo da parecchi altri normanni. Il re Frode (chissà che significava, questo nome, in normanno…) con quell’inganno conquistò le città di Pleskov e di Londra; Harald Haardraade un castello della Sicilia; Roberto Guiscardo una fortezza dell’Italia meridionale; Roggero I, re di Sicilia, il castello di Gurfol in Grecia; l’imperatore Federico II, normanno dal lato di madre, il monastero di Monte Cassino. [...] Anche il Delarc riconosce a Dudone il merito d’essere stato il primo a raccontare la frode della morte simulata e del finto interramento. [...] Dudone, prima canonico, poi decano della collegiata di San Quintino, recatosi presso Riccardo II, il Buono, duca di Normandia, perché rappaciasse Alberto, conte di Vermandois, con Ugo Capeto, re di Francia, mostrò tale prudenza e tanta abili-tà nel trattare quel negozio, da meritarsi la stima e il favore di Riccardo, il quale lo colmò di regali. Dudone, per mostrargli la propria riconoscenza, prese a scrivere, in tre libri, la storia de’ primi Duchi di Normandia, da’ tempi del condottiero danese Hasting fino alla morte di Riccardo I, avvenuta il 20 novembre del 996. Messa alle stampe la prima volta dal Duchesne, il 1619, ebbe una nuova edizione, nel 1865, per cura del Lair”14 della quale si è già parlato. Bisogna però riconoscere che Dudon sembra parlare più da cristiano (e da prete) che da normanno o da amico dei duchi normanni.

La letteratura e la drammaturgia non potevano, ovviamente, disinteressarsi di una storia così carica di fascino: la morte apparente – inscenata da Hadding per conquistare una città e il suo territorio – poteva rappresentare un ottimo espediente narrativo e teatrale, un deus ex machina per risolvere trame senza via d’uscita. Esiste, infatti, una serie di versioni letterarie in cui la morte apparente assume un’altra funzione, ed è riferita alla consorte del duca o principe16.
Non so che fondamento abbia – al di là dell’assonanza che potrebbe essere causale – la riportata parentela etnica tra i Dani o Danesi e i Daci della penisola balcanica, sottomessi da Traiano e vicini all’antica Troia17: ma l’espediente usato da Hadding sembra ovviamente ispirato a quello del celebre cavallo, ideato dal nostro mitico ‘vicino’, e forse anche ‘parente’, Odisseo. Come si è visto, secondo qualcuno, i lunensi avrebbero preso parte a quell’antico assedio15; ma, forse, non avevano trasmesso – fino ai loro discendenti di circa duemila anni dopo – la notizia di come era stata sopraffatta la città di Priamo.
Concludo con una mia suggestione che tenta di spiegare la presenza, in un registro parrocchiale salentino, di un’annotazione su un’antica città distante un migliaio di km, e nasce dal considerare una coincidenza: tra le città e le contrade che furono oggetto d’attenzione e di cupidigia da parte del nostro pirata, si registra anche la Turenna, cioè la regione di Tours di cui san Brizio, patrono di Calimera, era stato vescovo nella prima metà del V secolo18. Quella che noi oggi chiamiamo ‘curiosità intellettuale’ potrebbe aver spinto l’arciprete Licci a mettersi in contatto con i conterranei del santo titolare della sua parrocchia, nonché compatrioti di Dudon de Saint-Quentin; se fu così (e se la fonte della nota non è da cercare nell’opera del Krantz), forse don Marino ottenne, tra le altre notizie, questa, appena riferita, su “Adingo Principe Normanno”.


[1] Vedremo nel seguito che sarebbe più esatto affermare il contrario.
[2] ‘Dudon’, Enciclopedia italiana 13 (Roma 1932; rist. fotolitica 1949) 251.
[3] G. Sforza, La distruzione di Luni nella leggenda e nella storia (Torino 1920) 67-70.
[4] Qui un asterisco rimanda ad una nota in margine: “al. Lux urbem”.
[5] Come sopra: “Alstign”.
[6] Per l’asserita discendenza dei Danesi dagli antichi Daci, si veda una nota più avanti.
[7] Qui l’edizione “migliore”, quella del Lair (almeno per come riportata in Sforza, La distruzione 69), ha “ad”, con un ablativo d’agente.
[8] “Luna, allora fiorente e senza dubbio costrutta del bel marmo di Carrara sì vicino ad essa, dovette fermare gli sguardi di guerrieri i quali fino allora avevano veduto città barbare e d’ignobile costruzione” (L. Dubois, ‘Hasting’, Biografia universale antica e moderna 27 [Venezia 1826] 452). I marmi estratti dalle Alpi Apuane, che in epoca romana avevano determinato lo sviluppo e la fortuna del portus Lunae, ne avrebbero poi causato anche la rovina.
[9] Duchesne, Historiae 64-65.
[10] Sforza, La distruzione 123.
[11] Una delle osservazioni conclusive nella nota scritta nel registro parrocchiale calimerese (“il creduto funerale di un finto morto divenne funerale alla lor libertà”) sembra proprio la traduzione di questo passo.
[12] Sforza, La distruzione 31-32; per la fonte, si veda la nota 1: “Cfr. ALBERTI KRANTZII, rerum germanicarum historici clariss., Regnorum Aquilonarium, Daniae, Sveciae, Norvagiae Chronica, quibus gentium origo vetustissima et Ostrogothorum, Wisigothorum, Longobardorum atque Normannorum, antiquitus inde profectorum, res in Italia, Hispania, Gallia et Sicilia gestae, praeter domesticam historiam narrantur, Francofurti ad Moenum, apud haeredes Andreae Wecheli, M. D. LXXXIII; pp. 355-356”. Si veda anche com’è introdotta questa versione: “La Memoria de civitate Lunae et eius destructione, inserita da maestro Egidio nel Codice Pallavicino, non sfuggì allo storico sarzanese Ippolito Landinelli, il quale, dopo averne fatta la trascrizione, soggiunge: «Ma con quali fraudi ed inganni presa fosse, ivi menzione alcuna non si fa. L’ho ritrovato io nondimeno in certe cronichette con latinità barbara composte, che gran tempo ho riputate cose favolose, sinchè avendo io dopo veduta l’istoria d’Alberto Krantz, tedesco, che morì l’anno 1503, ed altri autori di quelle parti, che poco fa sono venuti in luce, sono rimasto chiaro della verità di questo fatto»” (ibidem, 30-31). Lo Sforza, dopo aver precisato in nota che il Krantz morì nel 1517, pubblica con una certa soddisfazione una versione di quelle “cronichette” inedite (ib. 35-39, per chi volesse approfondire l’argomento).
[13] Sforza, La distruzione 65-66. Si veda anche la nota 1 che lo Sforza trae dallo Steenstrup: “«M. KONRAD GISLASON (dans Nestor, traduit par C. W. Smith, p. 323) en parlant du nom normanno-russe Jastjag suppose qu’il est le même que Haddingr, qui vient de haddr (cheveux). Envisagés au point de vue gothique les deux mots seraient sans doute Hazds et Hazdings»”. Tenendo presente che la presenza normanna in Terra d’Otranto è un elemento di tutto rilievo (come conferma la provenienza di re Tancredi) verrebbe da pensare che il termine salentino jazzi (indicante, all’incirca, “ciuffi di capelli disordinati”), abbia a che fare con i lessemi riportati, se – dalle voci jazzu (“becco, caprone”), jazzaluri (“becco giovane”) e izzaluri (“capretto”), riportate in G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Galatina 1976) dove, peraltro, il plurale jazzi è noto solo come “nomignolo che si dà agli abitanti di Melendugno” – non si riconoscesse l’origine di quel termine in izza (“capra”, da αίξ), per via dei caratteristici ciuffetti di questi ovini.
[14] Sforza, La distruzione 66-67.
[15] Lo Sforza (ibidem 14-15) pubblica un frammento di una novella inedita di Giovanni Sercambi (un commentatore di Dante vissuto tra il XIV e il XV secolo) in cui si narra che la moglie di un “re Astech” di passaggio per Luni si innamora di un giovane locale e progetta con lui di “avere diletto” insieme, dopo aver assunto un “beverone” che la faccia sembrare morta. “La leggenda, come notò il Renier, «riveste la forma della notissima tradizione medioevale intorno alla donna che si finge morta per fuggire col suo amante; tradizione che da una branca della leggenda salomonica, in cui ha carattere turpe, si spinge fino alla pietosa e gentile tragedia di Giulietta»” (ib.). A seguire (ib. 15-22) sono riportate varianti sul tema – con diverse sfumature sulla volontà adulterina nella donna – tratte dal Villani («La città di Luni, la quale è oggi disfatta, fu molto antica, e, secondo che troviamo nelle storie di Troia, della città di Luni v’ebbe navilio e genti all’aiuto de’ Greci contra li Troiani: poi fu disfatta per gente oltra montana per cagione d’una donna, moglie d’uno signore, che andando a Roma, in quella città fu corrotta d’avoltero; onde tornando il detto signore con forza la distrusse, e oggi è diserta la contrada e mal sana»), dal Petrarca, molto sfumato e discreto “…nel suo Itinerarium Syriacum: «Non procul hinc circa extremos fines Januensium Corvum famosum scopulum, et nomen a colore sortitum, ac paululum provectus, Macrae amnis ostia, quae maritimos Ligures ab Etruscis dirimit, supraque litus maris, sinistramque ripam fluvii ruinas Lunae iacentis aspicies, si famae fides est. Aliud enim hac in parte nihil habeo; magnum exemplum fugiendae libidinis, quae saepe non modo singulorum hominum, sed magnarum urbium et locupletium populorum, ac regum opes, fortunasque pessumdedit, licet huius rei exemplum maius et antiquius Troia fuit»”) e da un altro commentatore dantesco: “La distruzione di Luni è ricordata da Dante per bocca di Cacciaguida nel canto XVI del Paradiso. […] Qui la leggenda della «lussuria» non c’entra per nulla. A giudizio del Poeta, è il mescolarsi della gente nuova con le vecchie schiatte, che rovina le famiglie e le città. Pure, uno de’ suoi commentatori, Francesco da Buti [1324 – 1404], ne piglia occasione per affermare: «Se tu, cioè Dante, dice messer Cacciaguida, riguardi Luni: questa fu una antica città posta in su la marina a le fine di Toscana, in verso ponente allato a le foce de la Magra presso il monte che si chiama il Corbo, et era in piano e fu antica città, e fu disfatta perchè una donna d’uno grande signore, che vi passava con essa, li fu tolta con nuovo e mirabile inganno alloppiata, sicchè parve morta; e data a la sepoltura fu fatta tornare in vita, poi che lo signore si fu partito; ma, saputosi poi da quel signore, vi venne con grande esercito e disfece la detta città, e rimenòsene la donna sua; la quale città mai non si rifece poi, perche l’aire v’è infermo e corrotto et anco per la moltitudine de le serpi che v’abbondono e sonovi ancora; unde si dice: In misera Luna morti nox sufficit una, cioè chi vi sta pure una notte è morto»” (per inciso, io non sono riuscito a dormirvi nemmeno una notte… ma perché non ho trovato posto in albergo, pur cercando di prenotare con una settimana di anticipo). Sull’argomento della fine di Luni tornarono ancora altri, tra cui il cinquecentesco Leandro Alberti in Descrittione di tutta Italia: «Dicono alcuni che Luni fu per tal cagione rovinata. Essendo Signore di essa un gentil giovane, et ritrovandosi quivi un Imperadore con la moglie, et vedendolo tanto bello, s’innamorò di lui. Et havendo havuti assai ragionamenti insieme, trattarono il modo da dovere compire li suoi sfrenati appetiti. La onde finse la mala donna di esser morta, e per tanto fu sepolta. Dopo, essendo istratta dalla sepoltura dal giovane, fu condotta a casa sua, et tanto fenno quanto haveano trattato; la qual cosa scoperta dall’Imperadore, ne pigliò tanto isdegno, che incontanente fece crudelmente uccidere li due amanti et poi rovinare la città. […]». Questa leggenda ebbe l’ultima eco nel 1695, sulle labbra di Giuliano Lamorati di Portovenere. Secondo lui, «Li primi a’ quali Luni pagasse tributo di sangue furon li Gotti, che nel 410, sedendo al governo del mondo Arcadio et Onorio, sotto la guida del re Alarico scorsero l’Italia, marchiandogli sempre a’ fianchi l’horrore, la vendetta, la strage. Da per tutto incrudelire contro la robba con rapine, contro l’honore con sfrenata licenza, contro i corpi col ferro sarebbe stato mal tolerabile, se all’anime ancora non havessero con la peste Ariana machinato l’ultimo esitio. Una donzella di sangue principale fra essi, dalla bellezza di Luni, dove per a caso passò, fu talmente rapita, che la riputò degna in essa, come nel grembo stesso di pace e magnificenza, il restante di vita sua menare li suoi giorni tranquilli. Era a costei nel volto il pregio delle più allettatrici bellezze, nè era barbara in altro, che nel rigor di sua honestà. Lucio Prencipe di Luni non hebbe petto di diamante per resister alli di lei sguardi di fuoco, non prudenza per estinguere nelle prime scintille l’incendio non forze per star lungo tempo vicino al fuoco senza abbruciarsi. Il fervor dell’età, la libertà del sovrano impero, la commodità di preda sì gradita li fecero poner in dimenticanza le leggi dell’ospitalità e cacciaron dal seggio la ragione. Amor, sempre machinator di ruine, toltosi dagli occhi la benda, all’incauto giovane l’impose, acciò non scorgesse la catastrofe de’ mali, a’ quali una tragica scena imprudentemente s’apriva. Dunque l’incauto Prencipe il verginal fiore alla bella barbara rapì. Tutti li più chiari segni, che dar possa un cuore, amareggiato da estremo cordoglio, li palesava costei. Ogn’altra perdita, che accaduta le fusse, haverebbe stimata men grave. Abborriva la luce del sole come testimonio di sue vergogne; gli uscivan dagli occhi quei caldi torrenti, che se haverebbero logorato con la continuatione le selci, non potevan far rinverdir il suo giglio; pareva mandasse fuori l’anima dietro a’ sospiri, quali penetraron finalmente all’orecchie del re Alarico. Egli, che gonfio della prosperità di tante vittorie e ricche prede di Campagna, di Basilicata, di Calabria, qual è l’humana ingordigia, fiutava tuttavia da per tutto nuovi pascoli alla sua avaritia, da Roma, quale pur all’hora cingeva con stretto assedio, fece volar in Luni, quasi alati dragoni, parte delle sue truppe, con quali l’assalire e demolire Luni seguì in un istesso tempo e sfogo di generoso furore. […]». Come s’è visto, soltanto il Sercambi e il Dati svelano il nome dell’oltraggiato marito, ma nello svelarlo sono tra loro discordi: per il primo è «Astech, re di Vismarch», venuto a Luni con il fratello «Alier»; per il secondo è il «Duca d’Anguersa, barone del Re di Francia».
[16] “DACI nuncupantur à suis Danai, vel Dani, gloriantúrque se ex ANTENORE progenitos ; qui , quæ Troiæ fuerunt depopulatis, mediis elapsus Achiuis, Iliricos fines penetrauit cum suis” (Duchesne, Historiae 63).
[17] Il nome latino della città in questione (Luna) deriverebbe dal fatto che i greci avevano attribuito il nome di Selene al porto, e anche alla città (“Σελήνης λιμένα καί πόλιν”, Strabone V 2,5), presso la foce del fiume Magra, forse per un’insenatura arcuata che ricordava la falce lunare (AA.VV., Luni: guida archeologica [Sarzana 1998] 9-10); da questo porto erano partiti per la Spagna, durante la seconda guerra punica, Catone il Censore e il ‘rudino’ Ennio che ne parlò negli Annales. L’interramento dell’insenatura (nonostante la modestia, per non dire la ‘magrezza’ del corso d’acqua…) e il diffondersi della malaria determinarono l’abbandono della città nel corso del XII secolo, tanto che nel 1204 la sede vescovile fu trasferita a Sarzana: dall’attuale linea di costa non si scorge nemmeno la più imponente struttura antica, cioè l’anfiteatro, nascosto da alberi e case sparse. Hadding, oggi, passerebbe oltre.
[18] I turonesi assediati avrebbero portato sulle mura il venerato corpo di s. Martino (il maestro e predecessore di s. Brizio nella cattedra episcopale di Tours) che avrebbe compiuto il miracolo di far ritirare gli assedianti: “An. 841. Lotharii imp. anno primo, Hastingus, cum innumera Danorum multitudine, Franciam ingressus, oppida, rura, vicos, ferro, flamma, fame depopulatur. Galliae itaque superioris finibus accensis, Turoniam venit; ibique Ambazia et universis, quae inter Ligerim et Carum fluvios continebantur, in favillam redactis, Turonim obsidet. Cumque urbem crebris assultibus infestaret, Turonici viribus diffidentes, corpus b. Martini flentes et dolentes rapiunt, et super murum quo belli violentior impetus erat, mortuum pro vivis propugnatorem opponunt. Virtute Sancti, Dani fugiunt, fugientes Turonici persequuntur, secum corpus b. Martini cum laudibus deferentes. Sicque pars Danorum gladio cadit, pars capta reducitur, pars altera fugiens sic evasit. Turonici vero cum gaudio redeuntes, in loco, quo Sancti substitit corpus, dum Danos fugarent, in honore Sancti fabricaverunt ecclesiam, quae propter belli eventum S. Martini bellum ab incolis nuncupatur. In honore vero Sancti eo die, quo de Danis habuerunt victoriam, scilicet IV idus maii, instituerunt solemnitatem annuam celebrandam, quam Subventionem proprie nuncuparunt” (Sforza, La distruzione 124, da “Chron. Turon. in Scriptor. Norman. p. 25” del Langebek).

venerdì 18 aprile 2014

Compleanno di Lucrezia


Sìmmeri ene e Mali Prasseì tu chronu diu chijae ce dekatèssare. Pentakošciu' ce triantatèssarus chronus ampì, ess uttin emera jennithi sto Subiaco, ambròs sti’ Romi, e Lucrezia Borgia, pu sti’ żoì’-ti ènghise na ‘kusi xe otikanè panu’ cini. Arte fènete ti ‘en ìone olon alìthio, ce alii xèrune ti isi kristianì èżżise manechò triantannea chronu, jatì pèthane sto' chije pentakošce dekannea, jennonta mia’ kiatereḍḍa.
Evò ce ta pedìa-mu, akatòn emeres ampì, noìsamo ti ìthele na pì enan gramma krifò pu cini èpepse ston andra’-ti, ce pu iche mìnonta enan misteri j’olon utto’ cerò. Pleon ambrò gràpsamo kampossa pràmata pu ‘vvrìkamo e’ citto gramma.
“Arte vrai stes ikositèssares ore irte pù Bondeno ettù ena […] pu mûpe ti e Stelata e’ chameni c’ecino ide ce mìlise môn Mancino pu ene o pronò xe cittus fantu pu stèane ecessu […]. Àndra-mu, mu fani kalò na sô 'pò m’utto gramma pu petto lafrà […]. Se cheretò pù Ferrara stes ettò tu ottobrìu atto’ chije pentakošce ce deka […], ducissa Lucrezia […]”.
Oggi è il Venerdì Santo dell’anno 2014. Cinquecentotrentaquattro anni fa, in questo stesso giorno, nacque a Subiaco, nei pressi di Roma, Lucrezia Borgia, la quale anche in vita fu bersaglio di tante maldicenze. Adesso molte di esse si sono rivelate per ciò che erano, e pochi sanno che ella visse appena trentanove anni, essendo morta di parto nel 1519 dopo aver dato alla luce una bimba.
Io e i miei figli, cento giorni fa, abbiamo decifrato una lettera in codice mandata da Lucrezia al marito, che era rimasta un enigma irrisolto per tutto questo tempo. Più in là abbiamo riportato svariati particolari di quella lettera.
“Questa sira ale vintequatro hore è venuto dal Bondeno qui uno […] il quale me ha dicto che la Stelata è persa et lui havere visto et parlato cum il Mancino che era capo de quelli fanti che vi erano dentro […]. Ill. Sig.re, mi è parso darne adv(iso) a V.ra ill. S. per questa spazata per stafeta […]. Ferrarie, octavo octob(ris) MDX, […] Lucretia […] ducissa […]”

domenica 16 febbraio 2014

Traùdi tos Màrturo

Sto ìmiso’ kaloceri,
pù ’ss ena’ topo’ xeno,
xe nitta ce x’emera,
èftase tosson gheno.

Ftàsane xe prasseì,
sti’ Chora' tu Terentù,
na 'màs piàne ’i’ żoì,
na 'màs 'guàlune pù ’ttù.

E tàlassa skotìgnase,
e anghera rodìgnase,
e lumera 'màs ektinni,
e psichì 'màs finni.

Piàkane ’es ghineke,
pìrane ta pedìa,
ti kànnune pù ’ss emà
pu ‘e’ chrìżżome makà?

Mavvriżżi o kosmo,
chànnutte e fonè,
pèttune e ciofale,
ritti jema otikanè.

Glemmeni ce sfammeni,
ce ’en exèrome jatì,
pos pèthane o Kristò,
panta xe prasseì.
Nella media estate,
da un luogo straniero,
di notte e di giorno,
è arrivata tanta gente.

Sono arrivati di venerdì,
nella Terra d’Otranto,
a prenderci la vita,
a scacciarci da qui.

Il mare è annerito,
il cielo è arrossato,
il fuoco ci brucia,
l’anima ci lascia.

Hanno preso le donne,
portato i figli altrove,
che faranno di noi,
che non abbiam valore?

Scurisce il mondo,
svaniscono le voci,
cadono le teste,
sangue per ogni dove.

Derubati e uccisi,
senza saper perché,
come morì Gesù,
sempre di venerdì.

sabato 1 febbraio 2014

Asteri ’is tàlassa


Asteri ’is tàlassa,
Mana vloimeni,
sti’ Roca èrkutte
oli nomeni;

ena’ samban ghiâna
na 'vvrìkune esena
taràssu’ pù Vèrnula
ce atti’ Calimera,

pù Malandugnu
ce cini atton Vrani,
traudonta pratune
na su kalofani.

kanònison ola
citta pedìa
pu se ’gapune
m’oli’ ti’ kardìa.
Stella del mare,
Madre benedetta,
a Roca vengono
tutti riuniti;

un sabato ciascuno
per trovare te
parton da Vernole
e da Calimera,

da Melendugno
e da Borgagne,
camminan cantando
per compiacerti.

Guardali tutti
quei figli tuoi
i quali ti amano
con tutto il cuore.

mercoledì 13 novembre 2013

Jà-mu Vrìzie-mu


Jà-mu Vrìzie-mu, t’en òrrio
utto prama pu 'màs ìpane:
atti’ Tours esù tèlise
nârti na stathì ma ’mà.

Chare’ male iche’ kàmonta,
tosso’ tosso’ ceròn ampì:
’o pedài na milisi
ce ’o rucho mi' kaì.

Ìone o Còrdulo chameno
'mmès sto jeno pu ’en ennòriżże;
ce cino se prakàlise
na min mini panta ecì.

Esù toa ’u pirte ess ìpuno
ce ’u tûpe na 'vvrethì
'o pornò ambròs sti’ tàlassa,
an ìthele na jurisi.

C’esù ’on èfere mapale
na torisi ’i’ Calimera’-tu;
cino ròtise: “Ti teli?”;
“Na stathò panta ma ’sà!”.
San Brizio mio, ch’è bello
questo fatto che tramandano:
da Tours tu volesti
venire a star con noi.

Miracoli avevi compiuto
tanto tanto tempo fa:
il neonato aveva parlato
e il mantello non si era bruciato.

Era Cordulo disperso
tra gente sconosciuta;
lui allora ti pregò
di non restare sempre lì.

Tu gli apparisti in sogno
per dirgli di trovarsi
la mattina in riva al mare,
se voleva ritornare.

E tu lo riportasti
a rivedere la sua Calimera;
lui chiese: “Cosa vuoi?”;
“Rimaner sempre con voi!”

martedì 25 dicembre 2012

Sto bombinài


Bombinàin-mu, t’ise kaluḍḍi!
Ce vastà a maḍḍìa krusà,
ce 'in mitteḍḍa, ce 'o lemuḍḍi
ma ta chili rodinà.

T’ine òrria itta cheruḍḍia!
Vuh! Pos ene? Nah, nah, nah!
Panu st’àchiron estèi,
sa’ ptechuḍḍi cundu ‘mà?

Ce jatì? Mûpe e màna-mu
ti ise o ria, ise o Kristò!
Jatì ‘e’ fei pù panu st’àchiro?
Prai, sto gratti to kalò!

Mûpe e mamma ti ‘sù èrkese
atto’ paraìso ettù,
ce kanni tosse’ chare,
ce vithà tus kristianù.

Ce ti ola ta pedàcia
‘mas gapà poḍḍì poḍḍì,
ce ci’ pu su jurèome,
otikanè, ola 'màs dì!

Bombinàin-mu – xeri? – o tàta-mu
pirte larga, larga. Ecì
– ipe e mamma – ‘en echi
mancu 'o spiti na stathì.

Ce ti plonni ston ambràkkio,
ce to’ pianni to nerò:
bombinàin-mu, na min vrexi,
kame – 'kui? – min e’ psichrò.

Na stathì kalò – ste 'kui? –
jatì – appu èrkete pù ‘cì –
e’ na 'màs feri 'us sordu,
na voràsome 'o psomì.

Pittuleḍḍe mancu ‘en èchome
– ipe e mamma – ma ‘en ekkideo;
na stathì kalò o ciùri’-mu
telo ‘vò, ce tipo pleo.

Bombinàin-mu, esù èrkese
ettù atto’ paraìso:
vuh, ti ise òrrio,
dela, fion na se filiso!

Giuseppe Aprile (1928)
Bambinello! Quanto sei bello
con i tuoi capelli d’oro,
con il nasino, e la boccuccia,
e le labbra color rosa.

Oh, che belle le manine!
E com’è? Non è possibile
che tu stia sopra la paglia,
poverello, come noi.

E perché? Dice la mamma
che sei re; tu sei Gesù!
Via, su, da questa paglia,
vieni a star nel letto buono!

Dice mamma che tu vieni
quaggiù dal paradiso,
e che tu fai tanto bene
ed aiuti le persone.

E che ami tutti i bimbi,
ma proprio tanto tanto,
e di quel che ti chiediamo
tutto quanto a noi tu doni!

Bambinello – sai? – mio padre
è andato a star lontano. Lì,
dice la mamma, non ha
neanche una casa dove stare.

E dorme nella capanna,
dove spesso, poi, si bagna:
bambinello, che non piova,
fai tu che non sia freddo.

Che stia bene – sai? –
perché – quando tornerà da lì –
ci porterà tanti soldini
per comprare da mangiare.

Non abbiamo neanche pìttule
– dice la mamma – ma non importa;
che stia bene il mio papà
voglio io, e nulla più.

Bambinello mio, tu vieni
fino a noi dal paradiso:
mamma mia, come sei bello,
lascia che ti baci il viso!

Daniele Palma (1968)